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Dalla sentenza Tekal alla Corte Costituzionale: l’affidamento in house

Monea Pasquale • 16 Giugno 2020

affidamento-in-houseLa questione affrontata dalla Corte Costituzionale con la sentenza nr. 100 del 2020 pare chiudere definitivamente il percorso delineato prima dal Consiglio di Stato, poi dalla Corte di Giustizia ed infine dalla Corte Costituzionale, sul tema dell’affidamento in house.


Dalla sentenza Tekal alla Corte Costituzionale: l’affidamento in house.

La locuzione anglosassone “in house providing” identifica il fenomeno di “autoproduzione” di beni, servizi o lavori da parte della pubblica amministrazione, mediante acquisizione degli stessi all’interno della propria compagine organizzativa, senza alcun ricorso al mercato e, quindi, senza affidamento a terzi mediante gara.

Il modello in house

Adottando il modello in house l’amministrazione aggiudicatrice decide, in concreto, di non esternalizzare il servizio o la fornitura o il lavoro, delegandoli ad una sua partizione organizzativa. Non sussistendo, dunque, alcuna terzietà sostanziale tra l’ente affidate e il soggetto gestore, tra le parti non viene a configurarsi una vera e propria distinzione sostanziale rilevante ai fini del mercato.

In questo senso, il modello in house rappresenta il tentativo di conciliare il principio di auto-organizzazione amministrativa – espressione del più generale principio di autonomia istituzionale – con i principi di tutela della concorrenza e del pari trattamento tra imprese pubbliche e private.

La figura si fonda sull’assunto per cui non vi si lesione del principio comunitario della concorrenza allorquando il soggetto affidatario rileva solo quale prolungamento operativo dell’amministrazione che operando, per questo, senza alcuna assunzione del rischio d’impresa, si colloca inevitabilmente al di fuori del mercato. La legittimità della relazione in house si individua, pertanto, nell’assenza di un vero e proprio rapporto contrattuale tra amministrazione aggiudicatrice e la società, elemento che giustifica la deroga all’evidenza pubblica.

Nonostante la centralità che la tematica ha occupato nel dialogo istituzionale, l’in house providing non ha trovato, quanto meno sino alle direttive appalti del 2014, alcuna disciplina positiva,qualificandosi sostanzialmente quale istituto di produzione giurisprudenziale, soprattutto comunitaria.

Nel diritto interno la disciplina dell’affidamento in house occupa un ruolo centrale tanto nella normativa sugli appalti pubblici (art. 192, D.lgs. 50/2016, codice contratti) quanto nella materia delle partecipazioni pubbliche (art. 5 del D.lgs. 175/2016).

L’affidamento in house

Mentre la disposizione del codice delle società partecipate ha lo scopo di evidenziare i caratteri del controllo pubblico su una propria società, tale da caratterizzarne l’essere un prolungamento della stessa, in termini di corretto affidamento della prestazione un ruolo centrale è assegnato alla disposizione contenuta nell’articolo 192 del D.Lgs. n. 50/2016 (“Regime speciale degli affidamenti in house”) per il quale, laddove si tratti di servizi disponibili  (anche) sul mercato in regime di concorrenza e quindi laddove vi sia un’obiettiva possibilità di scegliere tra più esecutori, le Stazioni Appaltanti, che intendano invece procedere in house, devono effettuare preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell’offerta dell’affidatario in house, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione specificando nel provvedimento di affidamento il mancato ricorso al mercato,  con specifico riferimento ai benefici per la collettività della scelta effettuata, anche in relazione agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche.

In sostanza si è fortemente aggravato l’onere motivazionale in capo agli enti pubblici che intendano far ricorso ad un affidamento in house, obbligo che diventa lo snodo essenziale del corretto e legittimo operare, poiché prima di porre in essere ciò, la Pubblica Amministrazione deve sia valutare la congruità economica dell’offerta sia  dell’oggetto e del valore della prestazione oltre che del c.d “fallimento del mercato”.

Il parere del Consiglio di Stato

Il Consiglio di Stato nella ben nota sentenza (sez. V, ord., 07.01.2019 n. 138) afferma come il  carattere secondario e residuale dell’affidamento in house, appare poter essere legittimamente disposto soltanto in caso di, sostanzialmente, dimostrato ‘fallimento del mercato’ rilevante a causa di prevedibili mancanze in ordine a “gli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche” (risultando altrimenti tendenzialmente precluso), cui la società in house invece supplirebbe; b) la seconda condizione consiste nell’obbligo di indicare, a quegli tessi propositi, gli specifici benefìci per la collettività connessi all’opzione per l’affidamento in house (dimostrazione che non sarà invece necessario fornire in caso di altre forme di affidamento – con particolare riguardo all’affidamento tramite gare di appalto).

La giurisprudenza ha altresì osservato che la valutazione effettuata dalla Pubblica Amministrazione è connotata da una natura tecnica discrezionale, la quale determina un’esclusione dal sindacato di legittimità del Giudice Amministrativo, a meno che essa sia affetta da manifesta e macroscopica illogicità, irrazionalità, irragionevolezza o arbitrarietà.

Alla stregua dell’orientamento del Consiglio di Stato, la dottrina ha puntualizzato la volontà del Legislatore è stata quella di introdurre “un onere motivazionale rafforzato, che consente un penetrante controllo della scelta effettuata dall’amministrazione, anzitutto sul piano dell’efficienza amministrativa e del razionale impiego delle risorse pubbliche”.

Il parere della Corte dei Conti

La magistratura contabile (Corte dei Conti, Sez, contr. Lombardia, deliberazione n.140 del 11 maggio 2016) ha sottolineato come il disfavore legislativo verso il proliferare di servizi locali (o attività strumentali) gestiti mediante società partecipate abbia imposto una loro razionalizzazione, avente come obiettivo la riduzione, per cui il più recente parametro normativo sollecita una motivazione ulteriore rispetto a quella di mera inerenza alle finalità istituzionali o di economicità.

In altri termini ai fini dell’affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, non è sufficiente il ricorrere dei soli requisiti del c.d. controllo analogo ma occorre avere riguardo all’oggetto e al valore della prestazione e dar conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato (c.d fallimento del mercato), nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta.

L’ordinanza della Corte di Giustizia UE

Con l’ordinanza 6 febbraio 2020 la Corte di Giustizia si è pronunciata sulla compatibilità dell’art. 192 del codice dei contratti, che subordina l’affidamento in house alla presenza di condizioni stringenti alle disposizioni comunitarie su “imput” del Consiglio di Stato.

Il Giudice nazionale ha infatti sottolineato che l’art. 192 del Codice assegnerebbe all’affidamento in house natura “derogatoria” rispetto al ricorso al mercato; ammettendone l’esperibilità “solo”:

  1. in caso di dimostrato fallimento del mercato rilevante;
  2. a fronte di un onere motivazionale rafforzato,  soluzione normativa che si porrebbe in contrasto con i principi euro-unitari di libertà delle scelte organizzative delle Pubbliche Amministrazioni e con l’art. 12, par. 3, della Direttiva 2014/24 UE; la quale – escludendo dal suo ambito di applicazione gli appalti aggiudicati secondo il modello in house – porrebbe tali affidamenti su un piano paritetico rispetto al ricorso al mercato.

In altri termini nell’interpretazione del Consiglio di Stato tra i due principi fondamentali dell’autodeterminazione ed autorganizzazione delle PP.AA. senza particolari vincoli e quello della concorrenza dei mercati il Consiglio ritiene il secondo sussidiario rispetto al primo.

Per la Corte di Giustizia, invece, quel che rileva pare essere la scelta compiuta a monte dallo Stato membro che nell’esercizio della capacità di autodeterminarsi, può sottoporre a condizioni specifiche il ricorso all’in house, anziché al mercato e senza che ciò possa costituire una violazione del diritto comunitario.

L’intervento del TAR Liguria

Infine, da rilevare come sul tema il TAR per la Liguria (Sez. II), ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di costituzionalità dell’art. 192 c. 2 del D. Lgs. 18.4.2016, n. 50, nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti diano conto nella motivazione del provvedimento di affidamento in house di un contratto “delle ragioni del mancato ricorso al mercato”, per contrasto con l’art. 76 della Costituzione, avendo la disposizione sospettata di incostituzionalità, introdotto un onere amministrativo di motivazione – circa le ragioni del mancato ricorso al mercato – maggiore e più gravoso di quelli strettamente necessari per l’attuazione della direttiva n. 2014/24/UE, la quale, per un verso ammette senz’altro gli affidamenti in house a patto che ricorrano le tre condizioni di cui all’art. 12, per altro verso ha escluso i relativi contratti dal proprio campo di applicazione, e dunque dall’obbligo di esperire preventivamente una procedura di gara ad evidenza pubblica (cioè, il ricorso al mercato).

Donde la violazione del divieto di “gold plating”, che costituiva uno specifico criterio di delega legislativa (lett. a).

La Sentenza della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale nel tornare sull’argomento, peraltro assai dibattuto nella giurisprudenza amministrativa, afferma che l’obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato imposto dall’art. 192, comma 2, del Codice dei contratti pubblici, risponde agli interessi costituzionalmente tutelati della trasparenza amministrativa e della tutela della concorrenza, non ostando con il criterio previsto dall’art. 1 comma 1, lettera a), della legge delega n. 11 del 2016, come in ordinanza di rimessione.

Né tale violazione sussiste anche prendendo a parametro l’art. 1, comma 1, lettera eee), della medesima legge delega, posto che il criterio direttivo è segno di una specifica attenzione a questo istituto già da parte del legislatore delegante. Da qui la perfetta rispondenza costituzionale della norma delegata, espressione di una linea restrittiva del ricorso all’affidamento diretto, che è costante nel nostro ordinamento da oltre dieci anni, e che costituisce la risposta all’abuso di tale istituto da parte delle amministrazioni nazionali e locali, come emerge dalla relazione AIR dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), relativa alle Linee guida.

Orbene, dal contemperamento tra il divieto di gold plating e le esigenze da assicurare alle amministrazioni che fanno ricorso all’in house providing, la Corte Costituzionale con abile attenzione al delicato equilibrio tra i valori comunitari e costituzionali, venuti in gioco nel giudizio in questione, ritiene compatibile il maggior obbligo motivazionale non previsto espressamente dalla legge delega, quale esercizio discrezionale della “scansione non linguistica” della delega parlamentare, tutte le volte che la ponderazione degli interessi in gioco propri dello stato membro necessiti di una attività regolatoria più incisiva, il cui esercizio non contrasta col divieto di eccessiva regolazione delle materie di interesse comunitario (cd. gold plating).

La sentenza merita attenzione poiché opera una netta distinzione tra i principi comunitari e la legislazione nazionale, affermando, in taluni casi, la prevalenza delle esigenze di maggiore regolazione nazionali, sempre nel rispetto del limite, apparentemente spostato in avanti, oltre il quale scatta il divieto di regolazione degli oneri non necessari, la cui ontologia diviene recessiva rispetto alle esigenze di trasparenza e motivata scelta del non ricorso al mercato in favore dell’affidamento in house.

L’insieme delle indicazioni sopra delineate pare riconoscere unasempre maggore difficoltà ad addivenire ad un corretto affidamento in house, lasciando intatto il tema delle difficoltà e sollevando il dubbio di una necessaria rivisitazione normativa del tema.

 

 

Fonte: articolo di Pasquale Monea, Segretario Generale Città Metropolitana di Firenze
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